fecondazione omologa post mortem

Fecondazione omologa post mortem

30/10/2021

Fecondazione omologa post mortem

Il caso.

Due coniugi italiani intraprendono un percorso di fecondazione assistita omologa nel corso del quale il marito apprende di essere affetto da tumore e di doversi sottoporre a cure chemioterapiche che comprometteranno la sua capacità di generare.

Il marito procede alla crioconservazione del liquido seminale, confermando la volontà di avere un figlio mediante procreazione medicalmente assistita (PMA), anche dopo la propria morte.

Per realizzare il comune desiderio di procreazione, la moglie, dopo il decesso del marito, si sottopone in Spagna a un procedimento di fecondazione assistita.

Nascerà in Italia, dopo più di trecento giorni dalla morte del marito, una bambina.

L’ufficiale di stato civile registra la bambina come figlia della donna, omettendo ogni riferimento al padre, non operando più la presunzione di paternità del marito.

La madre ricorre in sede giudiziale chiedendo la rettifica dell’atto di nascita della figlia con l’indicazione della paternità del marito e la conseguente attribuzione alla bambina del cognome del padre. I giudici di merito respingono la richiesta, che sarà accolta dalla Cassazione (Cass. 13.000/2019). 

Il ricorso alla fecondazione assistita post mortem è lecito?  

In Italia la legge vieta il ricorso alla fecondazione assistita post mortem. L’art. 5 della legge 40/2004 richiede, infatti, che alla PMA possano accedere solo coppie formate da componenti “entrambi viventi”.

Per quanto la norma non chiarisca in quale momento del procedimento fecondativo sia richiesta la presenza in vita, l’interpretazione ad oggi prevalente richiede la sopravvivenza dei componenti della coppia in ogni fase di applicazione della tecnica. Il che implica che i genitori dovranno essere vivi sia nel momento in cui è formato l’embrione (con conseguente divieto del prelievo di gameti dal cadavere dell’uomo, come pure della formazione di un embrione dopo il decesso), sia in quello in cui l’embrione è impiantato nell’utero femminile.

Se la fecondazione omologa post mortem è eseguita all’estero, qual è la disciplina giuridica applicabile alla filiazione?

Esistono Stati, come la Spagna, che consentono la fecondazione omologa post mortem entro 12 mesi dal decesso di chi abbia precedentemente autorizzato l’utilizzo del proprio seme crioconservato.

È pertanto possibile che, verificatasi all’estero la fecondazione post mortem, si ponga il problema di individuare quale tutela giuridica possa riconoscersi al bambino, figlio di coniugi italiani, nato in Italia, dopo la morte del padre genetico.

Il nodo che occorre preliminarmente sciogliere riguarda il modo di disporre dell’art. 232 c.c. che presume concepito nel matrimonio il bambino nato prima che siano trascorsi trecento giorni dallo scioglimento del vincolo coniugale (avvenuto per decesso del marito della partoriente). 

Se la nascita, infatti, avvenisse a più di 10 mesi di distanza dal decesso prematuro del padre, il rischio sarebbe quello di non poter far registrare negli atti di stato civile il nuovo nato come figlio di entrambi i coniugi, con conseguente mancata attribuzione del cognome paterno ed esclusione del bambino alla successione legittima del padre.

L’orientamento della Cassazione.

Muovendo dall’idea che la disciplina dello stato di filiazione prevista dalla legge sulla PMA configuri un sistema alternativo rispetto a quello della filiazione da procreazione naturale disciplinata dal codice civile, la Corte di Cassazione ha ritenuto non applicabile l’art. 232 c.c.  alle ipotesi di fecondazione assistita omologa, qualora la procreazione si realizzi in un momento successivo rispetto ai tempi di una ordinaria gravidanza.

Nel sistema delineato dalla Legge 40/2004 lo stato di filiazione viene attribuito unicamente sulla scorta del consenso alla fecondazione artificiale espresso dalla coppia genitoriale nelle forme prescritte. 

Questo principio rimane valido anche nel caso di procreazione post mortem (vietata) in quanto la legge 40/2004 non subordina l’attribuzione dello stato di figlio (art. 8) al possesso, da parte dei genitori, dei requisiti necessari per accedere alle tecniche di PMA.

Nel caso specifico di fecondazione omologa post mortem, eseguita all’estero da due coniugi italiani, la Cassazione ha ritenuto, pertanto, che nonostante la tecnica sia vietata in Italia, il figlio potrà vedersi riconosciuto il diritto alla bigenitorialità con conseguente formazione di un atto di nascita in cui figuri come figlio di entrambi i genitori, a condizione che:

– sia stato espresso un valido consenso da parte dei coniugi alle tecniche di PMA;

– il consenso si sia protratto sino alla data del decesso del marito;

– il consenso sia stato arricchito, prima del decesso, dall’autorizzazione all’utilizzo dopo la morte del proprio seme crioconservato.

La soluzione sposata dalla Corte garantisce al nato il diritto alla certezza della propria provenienza biologica, considerata elemento fondante l’identità personale dell’individuo, ai sensi degli artt. 2 e 30 Cost.

La decisione si inserisce nell’ambito di quel filone interpretativo, ormai prevalente nella giurisprudenza della Corte, che privilegia in materia di PMA la tutela del nascituro, rispetto all’interesse del legislatore alla limitazione dell’accesso alle pratiche di fecondazione assistita.